Di Maio-Conte, è guerra fredda

Di Maio-Conte, è guerra fredda

“Conte gli ha fatto male”. È direttamente da una fonte al vertice del Movimento 5 stelle che si percepisce il livello dello scontro in corso tra i due dioscuri del Movimento 5 stelle. Che qualcosa non vada lo si capisce dall’aula della Camera. Luigi Di Maio è seduto alla sinistra del premier che interviene in difesa del Mes, non lo guarda, la prossemica tradisce il gelo. Nessun applauso, solo un timido sorriso quando il capo del governo richiama “la resistenza allo studio dei dossier” da parte del fu ministro dell’Interno. Che i marosi si stiano trasformando in tempesta diventa chiaro un paio di ore dopo. La scena è la stessa, con Conte impegnato a replicare il discorso a Palazzo Madama. Di Maio non c’è.

Dietro le quinte si è consumato uno scontro senza quartiere. Pochi minuti prima che il premier si materializzasse a Montecitorio, sullo smartphone del ministro degli Esteri arriva il testo del discorso. Non la prende bene. Perché le parole di Conte sono un frontale con Matteo Salvini. Ma, pur non citandoli mai, investono come un treno i 5 stelle: “Il lavoro sul Mes ai tavoli europei, a livello tecnico e politico, era pienamente conosciuto dai membri del primo governo da me guidato”. Tutti i ministri, nessuno escluso. Vengono citate 11 occasioni in cui le modifiche del Fondo salva stati sono state oggetto di discussione in maggioranze delle quali i 5 stelle hanno fatto sempre parte.

Il testo è una difesa del lavoro svolto, e una spiegazione che quanto fatto non è stato portato avanti “al buio”, così come sostiene il capo politico M5s. Il tempo per correggere il tiro non c’è. Un parlamentare a lui molto vicino legge qualche minuto prima la prolusione contiana. “È la linea di Gualtieri, praticamente”. È un attimo, poi si corregge: “Ottimo, sbugiarda Salvini”. Ed è vero, dal punto di vista di Palazzo Chigi. Sbugiarda Salvini ma non mette di certo Di Maio in una posizione facile. Di Maio arriva in aula, la faccia è scura.

Nell’ora che passa tra la fine del dibattito alla Camera e l’inizio di quello al Senato le diplomazie si mettono al lavoro. Raccontano che non ci sia stato un contatto diretto fra i due, tanto è freddo il gelo che spira di questi tempi. Tra le righe, la richiesta avanzata al premier di correggere il tiro. Che viene garbatamente respinta. Conte non può rinnegare ciò che ha scritto e pubblicamente detto. Per una questione di opportunità, certo, ma soprattutto perché secondo il presidente è la versione lineare dei fatti. La mediazione fallisce. Di Maio non si presenta in Senato, e convoca i ministri a Palazzo Chigi per il tardo pomeriggio. L’ordine di scuderia è minimizzare l’incontro, il senso è un serrate i ranghi: il Fondo salva stati non deve essere modificato. Al sottosegretario Laura Agea viene dato un incarico che mette nero su bianco lo strappo con il Pd: scrivere un testo 5 stelle in vista della risoluzione di maggioranza da votare il prossimo 10 dicembre, e partire da quello per trovare una complicatissima quadra con il Nazareno.  

La tela già sfibrata dal fallimentare vertice notturno viene definitivamente strappata. I due cercano di rattopparla con due dichiarazioni incrociate in cui si danno dei buffetti girando intorno al problema. Parte Conte: “Cosa c’entra Di Maio? Nessun malumore, ci sono nell’ambito dielM5s criticità sollevate ma noi siamo assolutamente determinati, tutto il governo, a lavorare sino all’ultimo per migliorarlo”. Risponde il capo politico: “Il presidente ha messo a tacere le falsità diffuse dall’opposizione. Abbiamo apprezzato la posizione ribadita circa la logica di pacchetto. Siamo compatti più che mai nel dover rivedere questa riforma”. Troppo poco per considerare ricomposta la situazione.

Pubblicamente il leader pentastellato è attento a non elevare lo scontro sopra la soglia di guardia. Perché Palazzo Chigi rimane in definitiva il miglior, se non l’unico, alleato per poter portare a casa qualcosa. Ma sa anche di avere dietro di sé la stragrande maggioranza del Movimento. E gioca a suo favore una pattuglia di irriducibili al Senato, che non ratificherebbe a prescindere le modifiche in caso di giravolta improvvisa. Gli oltre venti banchi vuoti (oltre a quello di Di Maio) di Palazzo Madama parlano da soli. “Un discorso da amministratore di condominio”,le sprezzanti parole di Gianluigi Paragone, che dà fiato all’indicibile da parte dei vertici.

Ma non tutti la pensano così. O meglio, se nel merito condividono il muso duro, è la gestione del caso, e il vaso di Pandora scoperchiato da Conte a finire nel mirino. Nelle chat rimbalza uno screenshoot diffuso da Claudio Borghi. Il leghista diffonde un messaggio dello scorso 12 giugno ricevuto dal senatore Alberto Bagnai: “Visto Fraccaro. Sua idea è che il documento sia irricevibile nel merito e nel metodo”. È la prova definitiva, per insospettabili dissidenti, che A tarda sera un esponente pentastellato che ha accesso alla stanza dei bottoni risponde al telefono: “Siamo ridicoli”. In che senso scusi? “Nel senso che chi di noi si occupa di queste cose è un incompetente, non capisce nulla. Sono buoni solo a cavalcare la comunicazione, non a occuparsi delle cose serie. E ora provano a rifarsi una verginità”. La chiosa è a cavallo tra la valutazione politica e un significativo e dirompente auspicio per il futuro: “Per fortuna che c’è Conte”. Sipario sulla giornata.