Alzano e Nembro: i soldati pronti a chiudere, ma l’ordine non arrivò mai

Alzano e Nembro: i soldati pronti a chiudere, ma l’ordine non arrivò mai

Per necessità di sintesi, useremo i numeri e non le persone. Quelli che arrivano da Alzano Lombardo e da Nembro nel periodo compreso tra domenica 23 febbraio e il 7 marzo dimostrano una progressione quasi esponenziale dei decessi. Il giorno prima della data di inizio ufficiale del focolaio nella provincia di Bergamo, che ben presto diventerà il più letale d’Europa, sono bastate poche ore per istituire la zona rossa nel Lodigiano, intorno a Codogno, dove era stato appena scoperto il cosiddetto paziente uno. Nell’Italia ormai lontana di quell’ultima settimana di febbraio, sembra quasi che il più sia stato fatto. Per quanto possa apparire incredibile oggi, all’uscita da un tunnel lungo tre mesi, all’inizio della tragedia italiana del coronavirus c’è stato un tempo nel quale la Confindustria di Bergamo pubblicava un video, rilanciato dal sindaco Giorgio Gori, nel quale la città orobica era «running», correva a dispetto delle paure. E lo stesso avveniva a Milano «che non si ferma», e altrove. Le imprese e la politica lombarda non volevano alcuna forma di interruzione delle attività e della vita sociale. Proprio durante la breve fase dell’ottimismo ad ogni costo e contro l’evidenza dei fatti, comincia il contagio.

Il nuovo focolaio il 27 febbraio

Nel «report coronavirus», inviato quotidianamente da Regione Lombardia alla Protezione civile, già il 27 febbraio emerge in modo chiaro l’esistenza di un nuovo focolaio di Covid-19. In provincia di Bergamo infatti si registrano 72 nuovi casi di positività al coronavirus. Nembro è il quarto Comune più colpito di Lombardia, al pari di Casalpusterlengo che rientra però nella zona rossa, mentre Alzano è il settimo, con 8 contagi. Il 28 febbraio Marco Rizzi, primario del reparto di Malattie infettive del Papa Giovanni XXIII di Bergamo, è il primo ad andare contro la corrente. «La crescita dell’epidemia è rapidissima, a partire da un focolaio che si è sviluppato dall’ospedale di Alzano. La terapia intensiva e ogni altro reparto sono già saturi. Servono misure di contenimento».

I contagi il primo marzo

La sua denuncia cade nel vuoto. Il primo marzo, i contagi toccano quota 43 a Nembro, 19 ad Alzano. Ancora il giorno dopo, l’assessore al Welfare lombardo Giulio Gallera si dice contrario all’istituzione di una eventuale zona rossa, esprimendo «forti dubbi» sulla sua utilità. È come se per una lunga settimana fossero esistite due realtà parallele. Mentre imprenditoria e politica, compresi molti amministratori locali della zona, frenavano sull’ipotesi di provvedimenti urgenti, gli ospedali della provincia di Bergamo vivevano un dramma difficile persino da raccontare. In quei giorni il pronto soccorso del Papa Giovanni XXIII sembra un ospedale da campo. Decine di pazienti con polmoniti gravi, che rantolano, sulle barelle, nei corridoi. Viene aperta la sala maxi-afflusso, destinata a terremoti e calamità naturali, ma non basta.

Il caso Alzano

Alla fine, prevalgono i fatti, come sempre. Nella provincia di Bergamo è in corso una strage. Ma da dove è partito il contagio? Lo ha già detto Rizzi, è ormai cosa nota. Al Pesenti-Fenaroli di Alzano succedono cose strane. A partire dalla seconda metà di febbraio vengono denunciati dai familiari delle vittime almeno cinque casi di decessi dovuti a polmonite interstiziale. Si tratta di pazienti ricoverati in corsia, nel reparto di medicina generale, aperto a tutti. Il 23 febbraio, dopo le prime due morti «ufficiali» per coronavirus, il direttore sanitario, pressato dai suoi medici, decide di chiudere l’ospedale. Poche ore dopo, la Regione ordina l’immediata riapertura. Da quel momento saranno i suoi funzionari a gestire direttamente l’ospedale. La Procura di Bergamo ha fatto sequestrare ai carabinieri del Nas tutte le cartelle cliniche di quel periodo, fino al 7 marzo. L’ipotesi è che in quel lasso di tempo ci siano stati ricoveri promiscui tra pazienti Covid e malati di altre patologie in almeno tre reparti. Anche dopo la chiusura temporanea del nosocomio, quando sono stati creati percorsi differenziati, la separazione non si sarebbe dimostrata impermeabile come avrebbe dovuto essere.